Riceviamo e pubblichiamo
Smettiamola col finto perbenismo delle parole.
Chiamateli paesi e non borghi.
Chiamatele vacche e non mucche.
Chiamatela Calabria e non terra mia.
La notte arrivò all’ingresso, e, come d’incanto, il professore Dal Canto – mandato dall’università del Minnesota per uno studio sugli ultimi sognatori del South Italy – le vide fermarsi.
Più avanti ci sarà un borgo, pensò ad alta voce. Un borgo? E chi è? Si chiese stranito, Carmine detto cane di mandria. Un paese, questo è un paese.
Scatarrò, guardò il cielo e la sua voce uscì argentina.
Questo è il mio paese ed è così a mezz’agosto, e pure a novembre e a febbraio, quando sono così solo che mi faccio compagnia.
Adesso non aveva senso proseguire oltre.
La loro sosta l’avrebbero fatta nella grande piazza, dove troneggiava la chiesa madre e dove arrivava finanche il riflesso del crocifisso dello Zingomarro.
Proprio lì, come ogni anno, sarebbe stata una piccola festa.
Avrebbero trovato i vecchi, le donne che rimestavano i pensieri e il ragù della domenica. E i bambini. Tanti bambini.
La notte, allora, tornò indietro. La luna le si parò davanti. Ci fu una luce discreta, pulita. Sembrava quella di una lanterna. Quella che protegge l’ombra di un paese.
E i suoi viandanti. Tutti le ringraziarono.
Perché tutti sapevano che custodivano i loro cammini e i loro luoghi. Con il fiato, i grandi occhi neri, le campane che parevano la corona di una regina.
E poi la coda lunga e ribelle, come la treccia di una ragazza di paese. Le chiamavano ognuna con un nome diverso.
Tutte, però, con lo stesso verso. Vacche.
Chiamatele vacche – gridò forte Cola, l’anziano caporale – ché vacche è il loro nome.
Mucche è un vezzeggiativo per bambini e per i cittadini che vengono a rubarci il sudore e le bestemmie per dire di essere campagnoli pure loro.
Per me, invece, erano soltanto lentiggini.
Lentiggini del mio altopiano.
Lentiggini della terra che non ho mai lasciato.
La mia terra. La Calabria.