Riceviamo e pubblichiamo
di Francesco Iacopino*
Il 27 febbraio scorso i Magistrati (non tutti, per la verità) hanno “scioperato” contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere. A sostegno della protesta indetta dall’Associazione di categoria si è tuonato di «riforma contro i Magistrati», di «PM sottomesso» all’esecutivo, di «difesa della Costituzione», per citare alcuni slogan.
È davvero così? Davvero i timori manifestati dalla Magistratura associata sono fondati e giustificati da solide basi argomentative? O ci si trova, invece, al cospetto di una resistenza debole, che nasconde il reale obiettivo del dissenso, vale a dire la difesa corporativa di assetti di potere regolati dal peso delle correnti, i cui guasti sono ancora scolpiti sulle pareti dell’Hotel Champagne?
Va detto senza ipocrisie: la posizione assunta da ANM è edificata sulle (sole) sabbie mobili della suggestione. Non un argomento capace di superare la prova di resistenza rispetto alle ragioni del sì.
Non è vero, infatti, che la riforma stravolgerà l’attuale assetto costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato; non è vero che sottrarrà spazi di indipendenza alla giurisdizione; che ridurrà le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini; che determinerà l’isolamento del pubblico ministero, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo ad una logica securitaria.
Non è vero che porrà le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo.
È vero l’esatto contrario. La riforma costituzionale ha il merito indiscusso di rafforzare il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo, completando il percorso di ammodernamento del nostro sistema processuale iniziato nel 1988 e irrobustito nel 1999, riposizionando al centro della Giurisdizione, come dovrebbe essere, il Giudice.
Vediamolo in dettagli.
1)- Le carriere unificate sono tipiche dei sistemi inquisitori; tutte le democrazie occidentali adottano modelli processuali di stampo accusatorio e carriere separate (eccetto Turchia e Bulgaria, che registrano un unico Consiglio sia per giudici che per pubblici ministeri: vorrà dire qualcosa?). Come ricordava Franco Cordero «il P.M. non è un Giudice. Un solo corpo è l’eredità del processo fascista».
2)- La separazione delle carriere realizza il giusto processo, nel rispetto della Costituzione, che esige un Giudice terzo e imparziale davanti a parti poste in condizioni di parità, così rafforzando le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini e nel rispetto dei valori comunitari. Il Parlamento europeo, già nel 1997, in una delibera relativa al rispetto dei diritti umani, ha affermato la necessità per gli stati di «garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la camera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates)… e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair traial)». In questa direzione, un P.M. interno alla magistratura, intesa come organo unitario, è oggettivamente incompatibile con la fisionomia della parità delle parti. Non è una questione di forma, ma di sostanza. Un P.M. che appartenga allo stesso corpo, allo stesso CSM e partecipi alla stessa componente associativa, ha gli stessi interessi di gruppo. Lo aveva ben compreso Giovanni Falcone quando scrisse che il P.M. non deve avere «nessuna parentela» con il Giudice (non basta che sia, ma bisogna anche che appaia terzo: l’arbitro e il calciatore in campo non possono indossare la medesima casacca). Per questa sua posizione, i Colleghi magistrati lo bollarono – cito testualmente – «come nemico dell’indipendenza della Magistratura». Più o meno le accuse che vengono rivolte oggi a chi sostiene la necessità della riforma. Giovanni Falcone aveva capito, come Rosario Livatino, che il Giudice non deve “salvare” indagini e non deve svolgere alcuna opera di supplenza. Non ha funzioni di scopo. La terzietà e l’imparzialità non garantiscono l’adozione di sentenze “giuste”, ma ne costituiscono uno dei presupposti. Al pari della parità delle parti.
3)- L’art. 104 (nel testo di riforma) non toccherà affatto l’autonomia e l’indipendenza del P.M.: continuerà ad accedere alla professione per concorso; non muteranno le norme sulla progressione di carriera; sarà garantito dalle norme sull’ordinamento giudiziario, dal suo CSM, e da un Giudice disciplinare autonomo (l’Alta Corte, formata 3/5 da magistrati). Una riforma “chirurgica”, disegnata nel pieno rispetto dell’architettura costituzionale e del principio della separazione dei poteri. Affermare altro significa nascondere le vere ragioni del dissenso: il depotenziamento del sistema delle correnti.
4)- Sulla cultura della giurisdizione. Chi osserva lo stato di salute del nostro sistema processuale, vede chiaramente come, a carriere unificate, non è stato il giudice ad aver attirato il P.M. nella sua sfera culturale (con tutte le garanzie che la corredano), ma è il P.M. ad aver contaminato il Giudice da quel pregiudizio che un soggetto terzo e imparziale (questo dice la costituzione) non dovrebbe mai avere. È il P.M. ad aver assunto “super poteri” e centralità nella giurisdizione, sbilanciando la terzietà del Giudice. Nella prassi quotidiana le parti non operano in condizioni di parità. E nella percezione sociale non conta il Giudice, ma il P.M., non la sentenza, ma l’arresto. Non è la sentenza a stabilire il risultato di giustizia agli occhi del cittadino. Anzi, la sentenza, se di assoluzione o ritenuta non esemplare nella pena, è percepita come denegata giustizia. Ecco perché i Giudici, con la Costituzione in mano, dovrebbero essere i primi a salutare con favore questa riforma, che punta a un recupero culturale, prima di tutto. Dovrebbero uscire fuori, con coraggio, come hanno fatto loro colleghi (Giacomo Rocchi, Valerio de Gioia, Giuseppe Cioffi, per citarne alcuni), e dire che questa riforma è una conquista per la nostra democrazia e per il livello di civiltà del nostro paese. Per dire con coraggio che l’agitazione associativa è solo frutto della paura di perdere assetti di potere finora consolidati. Altro che la favola del P.M. Super Poliziotto. Per chi non se ne fosse accorto, Super Poliziotto, il P.M., oggi lo è già.
5) Nel giusto processo triadico, come ricordava Giuliano Vassalli, la separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e quella ordinamentale delle carriere sono vasi comunicanti: la prima non può essere effettiva senza la seconda. In una recente intervista, Paulo Pinto de Albuquerque – giurista portoghese di fama mondiale – ha definito, la nostra, una riforma eccellente, che rafforzerà il modello accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo.
A quel modello ordinamentale, adottato pochi anni dopo la rivoluzione dei garofani, si ispira la nostra riforma. Ebbene, in Portogallo, ha aggiunto Albuquerque, «la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia, che ha avuto pieno successo nella pratica. Su questo sono d’accordo i giudici, i magistrati del pubblico ministero, gli avvocati e, in generale, la società civile».
Ed allora, mi rivolgo ai Magistrati: se vogliamo onorare insieme la Costituzione e attuarla, portarla a compimento, dobbiamo contribuire al progresso di civiltà del diritto. In questa direzione, spetta a noi recuperare culturalmente e socialmente la grammatica del giusto processo, ritrovarci intorno al quadro assiologico disegnato dai costituenti, rafforzare il modello accusatorio e la presunzione di innocenza. La storia giudicherà questa battaglia e gli schieramenti in campo. L’augurio, per tutti, è che tra qualche anno anche in Italia si possa dire, come in Portogallo, che la separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia, che ha avuto pieno successo nella pratica, trovando l’accordo dei giudici, dei magistrati del pubblico ministero, degli avvocati e, in generale, della società civile.
*presidente camera penale Alfredo Cantàfora di Catanzaro