Riceviamo e pubblichiamo
“Se anche la guardia medica chiude per ferie, allora siamo ufficialmente al capolinea. La sanità territoriale è allo sbando, e chi dovrebbe garantirla continua a voltarsi dall’altra parte.
A Santa Maria, quartiere densamente popolato di Catanzaro, la postazione di continuità assistenziale rimane chiusa per tre giorni consecutivi, dalla notte di venerdì scorso fino alle ore 8 di martedì 1 luglio. Il motivo? Nessun medico disponibile a coprire i turni.
Sulla porta, un freddo avviso dell’Asp comunica all’utenza l’ennesima vergogna: nessuno garantirà assistenza, arrangiatevi. Intanto anziani, malati cronici e persone fragili sono stati completamente abbandonati, costretti a rivolgersi a un pronto soccorso già allo stremo, o peggio ancora, a rinunciare alle cure.
L’Asp di Catanzaro, invece di trovare soluzioni, si è limitata a informare il sindaco Fiorita con una comunicazione formale. Siamo alla deresponsabilizzazione totale. La domanda è inevitabile: che fine ha fatto la sanità pubblica?
Non si tratta più di un episodio isolato. La fuga dei medici dal sistema pubblico è ormai un’emorragia, e nessuno sembra intenzionato a fermarla.
Invitiamo l’Asp ed il Presidente Occhiuto, nella sua veste di Commissario ad acta, a intervenire con urgenza e responsabilità, individuando soluzioni immediate e strutturali per porre fine a questo grave disservizio. Perché se non si interviene ora, domani sarà troppo tardi”.
Violenza di genere
“Con l’approvazione della nuova legge contro la violenza di genere, la Regione compie un passo che, pur segnando un riconoscimento formale e simbolico importante, resta ancora insufficiente.
È una legge che nasce sotto il segno delle buone intenzioni, ma priva di ciò che serve a trasformarle in cambiamento reale.
Il testo normativo accoglie, in linea con la Convenzione di Istanbul, una definizione ampia e corretta della violenza di genere, che non si limita alla dimensione fisica, ma include quella psicologica, economica, simbolica, verbale, istituzionale.
Un avanzamento culturale, certo. Ma nel vuoto operativo di una legge priva di programmazione, strutture, personale e fondi adeguati, anche le parole più avanzate rischiano di restare prive di efficacia.
In particolare, la legge tocca un punto cruciale ma ancora sottovalutato: la violenza che si consuma dentro le istituzioni, nei luoghi del potere politico e amministrativo, dove il genere continua a fare la differenza.
Le donne che scelgono di impegnarsi nella sfera pubblica lo sanno bene: troppo spesso, quei luoghi si trasformano in scenari di intimidazione, marginalizzazione, sabotaggio, delegittimazione sistematica.
Non si tratta di normali divergenze politiche, ma di un attacco costante e strutturato all’autorevolezza femminile.
Un attacco che prende la forma di esclusioni deliberatamente costruite, di campagne diffamatorie, di isolamento strategico. È una violenza normalizzata, invisibile ai più, ma profondamente lesiva per chi la subisce e devastante per la qualità della nostra democrazia.
L’assenza di una presa di posizione netta da parte delle istituzioni legittima di fatto queste dinamiche. Quando si minimizza, quando si tace, quando si derubrica tutto a conflitto caratteriale, si sta scegliendo da che parte stare. La neutralità, in questi casi, è già una forma di complicità.
Ecco perché non basta una legge. Serve un’assunzione di responsabilità collettiva, un patto politico e culturale per affermare che la parità non è un favore, ma un principio democratico, e che la rappresentanza femminile non è negoziabile.
Questa legge, nella sua formulazione attuale, è un punto di partenza.
Ma senza una regia istituzionale forte, fondi strutturati, formazione obbligatoria e una rete attiva di monitoraggio e supporto, rischia di fallire la sua missione.
A tutte le realtà impegnate contro la violenza – dai centri antiviolenza agli sportelli legali, dalle amministrazioni locali ai movimenti civici – spetta ora il compito di pretendere che questa legge diventi viva.
Che venga attuata in ogni comune, in ogni scuola, in ogni ufficio pubblico.
Che sia uno strumento di trasformazione reale e non l’ennesimo manifesto di buone intenzioni.
Non è una battaglia delle donne, ma una questione di democrazia.
Quando una donna viene silenziata, intimidita o esclusa per il semplice fatto di essere lì, non è solo lei a essere colpita.
È tutta la comunità politica a perdere in giustizia, pluralismo e credibilità”.