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Riceviamo e pubblichiamo

Soltanto pochi giorni fa un giovane detenuto di 28 anni si è tolto la vita nella casa di reclusione di Catanzaro. La notizia, diffusa dalla stampa, suscita tristezza e rinnova il sentimento di sgomento, ci tocca da vicino, perché si tratta di un suicidio avvenuto nelle carceri cittadine e perché questo estremo gesto di disperazione denuncia ancora una volta, ove ve ne fosse la necessità, le gravi inadeguatezze che accompagnano la detenzione.

Non si tratta soltanto di rimarcare le condizioni di sovraffollamento, con le ricadute sulla salubrità dei luoghi, sull’assistenza sanitaria, sulla sicurezza e sui percorsi rieducativi, che non sono carenze di poco momento, ma di prendere coscienza che in carcere sono detenuti anche cittadini estremamente fragili, per condizioni di dipendenza dalle sostanze stupefacenti o per via di patologie psichiatriche.

E’ il caso del giovane che ha deciso di togliersi la vita a Catanzaro, il quale sommava in sé le due fragilità e che aveva chiesto di poter essere allocato in una struttura più prossima alla residenza dei familiari e la fruizione di cure psichiatriche aggiuntive, a quanto pare senza esito, per come riportato dalla stampa.

Sono note le molte iniziative assunte dalla società civile e dalle associazioni impegnate in questo campo, tra cui – in prima linea – l’Unione delle Camere Penali Italiane e le Camere penali territoriali che, ormai da lungo tempo, denunciano le difficili ed inaccettabili condizioni della detenzione nelle carceri italiane.

Tuttavia, l’impegno profuso, pur alimentando il dibattito nel discorso pubblico e sollecitando la coscienza sociale ad occuparsi delle drammatiche condizioni dei “cimiteri dei vivi” (come li definì Filippo Turati in un Suo celebre discorso), non riesce a scuotere i palazzi della politica, nei quali il tema è volontariamente trascurato, chiusi, come sono, in una sorda indifferenza.

A rendere più amara la distanza dalla vita reale, la presa d’atto che al Governo si è piuttosto impegnati a compiacersi del disagio, se non anche della sofferenza inferta ai detenuti nei trasferimenti sui blindati della Polizia Penitenziaria; o, ancora, si avverte il senso della sconfitta solo a ipotizzare l’adozione di procedure premiali che, senza automatismi e con adeguate garanzie, potrebbero nel breve periodo ridurre la popolazione carceraria, determinando così il miglioramento  delle condizioni di vita all’interno degli Istituti di pena e la fruizione di percorsi di risocializzazione e sanitari almeno sufficienti, se non anche efficaci.

Senza entrare nel merito della vicenda particolare e lontano dall’esprimere giudizi che non competono, si tratta però e una volta per tutte di prendere coscienza che lo Stato, quando assume la custodia dei cittadini detenuti, ha degli obblighi che non può disattendere, così come nessuno di noi può tollerare che le condizioni di vita nelle carceri possano incidere sulla scelta di smettere di vivere.

Non si pensi, allora, che l’Ultimo dei Molti che si sono tolti la vita era un tossicodipendente o un paziente psichiatrico e che l’epilogo era inevitabile,  perché l’Ultimo ed i Molti hanno smesso di vivere mentre erano in carcere e non altrove, in una condizione nella quale lo Stato se ne era assunto la custodia, e per cui era tenuto a curarli e a salvaguardarli anche da se stessi.

Rinnoviamo la nostra denuncia auspicando “se non ora quando” che la Politica nazionale voglia farsi carico dell’adempimento dei doveri dello Stato verso i cittadini detenuti e tra questi con priorità verso i più fragili. 

Il Consiglio Direttivo e l’Osservatorio Carcere

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