Articolo e foto tratti da La Repubblica (di Fabio Marzano)

Fino agli anni Cinquanta è stata sfruttata per il legno oggi è una foresta vergine o quasi. In meno di un secolo la foresta del Gariglione, oltre mille ettari nel Parco nazionale della Sila in Calabria, ha ripreso la sua fisionomia di selva. Ci sono faggi e abeti che superano i quaranta metri di altezza e nemmeno l’ombra di specie invasive. Alcuni di questi alberi hanno qualche secolo alle spalle e la maggior parte sta crescendo nel rispetto dei cicli naturali di questi ambienti dove la successione tra le piante può essere anche brutale con schianti e fulmini.

Tanto che gli ecologi l’hanno definita una “giovane foresta vetusta”. Un ossimoro ma solo sulla carta come racconta lo studio coordinato dall’Università della Tuscia pubblicato sulla rivista Science of Total Environment. La ricerca svela come il ritorno a foreste naturali imponenti sia possibile in tempi relativamente brevi. Un fenomeno ricorrente nelle aree tropicali ma per il momento rimane un caso unico in ambito mediterraneo.

“Non solo le dimensioni in altezza e la copertura arborea hanno raggiunto uno stato paragonabile alla foresta originaria. – spiega Gianluca Piovesan, docente di Scienze Naturali e Ambientali all’ateneo laziale che ha coordinato la ricerca – Anche le quantità di carbonio fissato negli alberi rientra nei parametri di un ambiente non perturbato dall’uomo”.

Sembra di tornare sui passi di Norman Douglas, lo scrittore britannico che visita con stupore questi luoghi selvaggi negli anni Dieci del Novecento e ai quali dedica l’opera Old Calabria, poi tradotta in italiano negli anni Sessanta (Vecchia Calabria). Il bosco del Gariglione, dopo il passaggio di Douglas, diviene area di estrazione del legno fino al secondo conflitto mondiale quando è “preda di guerra” degli inglesi così come le foreste casentinesi (oggi Parco nazionale). In questo periodo si calcola che fino al 90% della biomassa sia stata prelevata a colpi di scure. Negli anni Settanta il Demanio dello Stato protegge l’area in qualità di riserva biogenetica e cassaforte di semi per molte specie che si sono adattate al clima mediterraneo. Da allora la gestione del bosco, che in quest’area del Parco nazionale è ancora oggi coordinata dai Carabinieri forestali, è stata improntata al laissez-faire della natura. Non è una forma di abbandono ma una strategia voluta che prevede controlli, monitoraggi e analisi costanti per garantire la rinaturalizzazione senza intervento umano.

Una delle piante protagoniste di questa rigenerazione lampo, almeno per i tempi della natura, è stato l’abete bianco che ha colonizzato le zone più disturbate del bosco contribuendo alla chiusura della volta arborea. Quelli che crescono in Italia meridionale sono più resistenti alla siccità e oggi sono studiati per valutare se sia possibile traghettarli in una migrazione assistita verso l’Europa centrale dove le popolazioni locali di questo albero, nel giro di qualche decennio, potrebbero non essere in grado di tollerare l’aumento delle temperature causato dal cambiamento climatico.

“L’ecosistema del Gariglione ha dimostrato notevoli capacità di ripresa anche nella risposta al riscaldamento globale: gli alberi più grandi non subiscono impatti maggiori di quelli più piccoli contrariamente a quanto accade in altri ambienti. – aggiunge Piovesan – Le dinamiche naturali del bosco hanno consentito anche di tenere alla larga le specie invasive che nel Gariglione non hanno trovato nicchie nelle quali espandersi”. La ricerca, finanziata dal Parco nazionale della Sila e a cui ha collaborato l’Università della Calabria, ha dimostrato anche che la rinascita della foresta del Gariglione può essere un modello per gli interventi di rinaturalizzazione previsti dalla Nature Restoration Law europea.

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