Articolo tratto dal web
Agguato in piazza per vendetta: la vittima, un 35enne già condannato per omicidio e lasciato a piede libero, aveva aggredito il giovane per un debito di 25 euro.
Guglielmo Palozzi ha aspettato che l’assassino del figlio uscisse dal carcere e gli ha sparato uccidendolo, nel centro cittadino di Rocca di Papa, comune dei Castelli Romani, in provincia di Roma.
Un omicidio per vendetta, quindi. Questa è l’ipotesi dietro alla sparatoria costata la vita al 35enne Franco Lollobrigida e avvenuta questa mattina nei giardini pubblici in piazza della Repubblica.
L’uomo fermato, 61 anni, è dunque il padre di Giuliano Palozzi, morto a 34 anni, nel 2020, in seguito a una violenta aggressione, legata a un debito di droga, subita da parte di Franco Lollobrigida, condannato, in appello, a 10 anni, per omicidio preterintenzionale.
L’arma utilizzata per il delitto è stata sequestrata e gli investigatori stanno ascoltando alcune persone che erano presenti in piazza della Repubblica al momento dell’esecuzione.
Sono al vaglio degli inquirenti le motivazioni, ma l’ipotesi più accreditata è, appunto, quella della vendetta.
«Coita coita Guglie’». In dialetto rocchigiano ossia degli abitanti di Rocca di Papa, piccolo centro appollaiato sui Castelli Romani, vuol dire «vattene, vattene» e lo hanno gridato i “vecchi” del paese a Guglielmo Palozzi.
Quando la sua figura è spuntata fuori, sulla piazza, la pistola ancora in pugno, dietro a quella di Franco Lollobrigida, pregiudicato di 35 anni, colpito e centrato alle spalle. Volevano coprirlo.
Sono le 10,45 di ieri. Piazza della Repubblica e via Roma sono affollate di persone. Molti ragazzi che aspettano l’autobus alla fermata del Cotral e i tanti clienti seduti al fresco del belvedere della “casina dei pini”. I più anziani del paese conoscono bene la storia di Guglielmo Palozzi e immaginano perché abbia sparato: il figlio Giuliano fu massacrato di botte e ucciso a 34 anni nel gennaio del 2020 vicino casa, per un debito di droga di 25 euro.
Da quel pestaggio il suo primogenito non si riprese più e morì dopo cinque mesi di coma per le gravissime lesioni riportate al cranio, alla mandibola e alla zona tempio-laterale.
A ridurlo così sarebbe stato proprio Lollobrigida, accusato di omicidio preterintenzionale, assolto in primo grado, per poi essere condannato in appello a dieci anni.
Le motivazioni della sentenza erano attese a giorni, ma i legali del 35enne avevano già preannunciato il ricorso in Cassazione e lui era a piede libero.
«Forse Guglielmo ha voluto farsi giustizia da solo una volta per tutte. Era in servizio, indossava la tuta da lavoro, e deve essersi ritrovato di fronte, libero, per l’ennesima volta quel ragazzo e chissà che gli è balenato per la testa – racconta Massimo D. A. un testimone – un capannello di gente gli ha cominciato a urlare “coita”, “vattene”, facendogli segno di scappare e nascondersi.
Allora lui ha mollato il carretto che ancora spingeva ed è fuggito verso via Cavour».
Lollobrigida, nel frattempo, aveva trovato la forza per salire le due rampe di scalini in pietra che da via Roma portano sul belvedere della piazza, per accasciarsi sotto un albero.
«Aveva un foro all’altezza della spalla, c’era molto sangue – spiega Antonio Gentili, gestore del chiosco – “mi hanno sparato al polmone, non respiro” diceva con un filo di voce. Sono andato a chiamare il medico vicino, sono accorsi dalla farmacia.
È atterrata poi l’eliambulanza, ma è stato tutto inutile». I carabinieri poco dopo troveranno il netturbino seduto sulle scalinate di via Cavour, non lontano dalla sede dei mezzi della ditta dei rifiuti.
Non aveva con sé la pistola, forse un revolver, che altri testimoni affermano di aver visto «estrarla dal marsupio per poi riporla di nuovo all’interno dopo avere fatto fuoco».
È stato portato in caserma a Grottaferrata e ascoltato dal pm in presenza dell’avvocato Fabrizio Federici.
L’uomo è stato sottoposto a fermo per omicidio volontario e condotto in carcere.
Si è avvalso della facoltà di non rispondere. Con il suo difensore è stato lapidario: «Non voglio parlare di questa cosa».
Come non ha mai voluto parlare della tragedia del figlio.
«Gli venne un infarto dopo, ha sempre tenuto quel dolore dentro di lui.
Non ne parlava mai, per lui il fatto era come se non esistesse», dice Monica la nipote di appena qualche anno di meno.